Architettura e Borghi rurali
Area dei mulini di Stalis
La ricchezza idrica favorì lo sviluppo dei mulini della località Stalis sul fiume Lemene. La località ancor oggi costituisce, oltre un’attrattiva d’interesse storico-insediativo, un richiamo naturalistico. Le acque scorrono limpide tra rive alberate e distese di campi e prati, in cui si leggono pienamente i modi di coltivazione e i paesaggi tradizionali, con fossi, siepi, seminati e spazi erbosi. Staules cum curte è unito a Vincaretum cum curte nella bolla di papa Lucio III del 1182, con la quale veniva confermata la giurisdizione di questi luoghi all’abbazia di Sesto al Reghena.
Il toponimo
richiama la presenza di stalle per il ricovero di animali. Le prime notizie ufficiali del mulino sono del 1432, quando venne concesso l’uso di mulino e sega a Leonardo e Paolo di Versiola. Dal 1688 l’opificio è passato in proprietà dei portogruaresi Tasca, con i Brussolo come mugnai, che resteranno a Stalis fino alla metà del ‘900.
Nel 1810
il catasto napoleonico segna l’aggregazione del mulino al territorio del comune di Gruaro, separandolo da Venchiaredo. Nel periodo 1810- 1839 è stato edificato il mulino della riva sinistra che funzionò fino ai primi anni ’70, mentre quello sull’isola cessò l’attività nel 1960. Iniziò poi il degrado, in particolare dell’edificio più antico, ridotto a un ammasso di macerie. Solo all’inizio degli anni ’90, grazie al Circolo culturale Gino Bozza di Cordovado che acquistò l’isola fluviale con l’antico immobile, e al Comune di Gruaro, si avviò il progetto di recupero del sito. Lo studio degli studenti di Ingegneria dell’Univ. di Udine favorirono l’inserimento nei programmi di finanziamento della Comunità europea: il recupero del mulino sull’isola fu completato nel 1998, mentre il restauro del secondo mulino (mulino nuovo) fu completato nel giugno 2000.
ed inoltre…
Sito del “Molinetto di Cordovado”
Sul rio Roiale (un tempo Gazolla), che in questo tratto segna il confine con il Veneto, questo opificio ebbe vita travagliata per la posizione al confine tra la giurisdizione vescovile e quella dell’abbazia di Sesto, con contese che si risolsero nel XIV secolo con la definitiva assegnazione al Vescovo concordiese e quindi a Cordovado. Nel 1517 sul mulinetto giravano ben 4 ruote. Nel secolo XVII una parte di esso fu incamerato nel patrimonio del Santuario della Beata Vergine, che nel 1735 acquisì poi la completa proprietà e rimase tra i beni del Pio Istituto fino alla soppressione napoleonica. Nella metà del XIX secolo fu abbattuto per costruirne uno nuovo che fu via via ampliato (sul pilastro d’entrata c’è l’iscrizione “Antonio Bornacin fu Giuseppe F.F.1868”) e furono sostituite le ruote con turbine. Nel tempo l’attività passò da artigianale a industriale, fino alla prima metà del XX secolo (con la gestione della famiglia Segalotti), quando cessò definitivamente di operare.
Il sito del molinetto è con ogni probabilità il luogo del miracolo della guarigione del mugnaio rappresentato nella chiesa di San Francesco di Udine, negli affreschi [1435 ca] che riguardano la vita e i miracoli del beato Odorico da Pordenone. L’episodio è stato interpretato dallo studioso George Kaftal con l’incidente avvenuto (nel 1324) a Giovanni da Cordovado detto Gallucio (o Galluccio o Gaiuffo), figlio di Giuliano da Versiola, che riportò gravi lesioni all’indice della mano sinistra durante il lavoro alla mola del mulino. Sette anni dopo, alla morte di Odorico da Pordenone (14 gennaio 1331), Giovanni decise di recarsi a Udine per rendere omaggio al corpo, ma durante la notte, nel sonno, l’intervento taumaturgico del francescano lo guarì completamente. Il mulino fu anche in proprietà di Francesco Diana, il padre dell’Umanesimo friulano, che nacque a Cordovado verso il 1430 e rimase sempre legato alla propria terra nonostante la lunga permanenza in altri luoghi. Secondo la tradizione, l’antico mulino ispirò a Ippolito Nievo la scena romantica dell’idillio tra la contessina Clara e il dottor Lucilio, nella tragica notte della fuga dal castello di Fratta del 1786, narrata nel capitolo V de “Le Confessioni di un italiano”.
“…Lucilio sudava per la fatica durata a moderarsi: ma la briga maggiore era quella di trarre in salvo la donzella, e in tal pensiero diede giù per una stradicciuola laterale del villaggio, e girando poi verso la strada di Venchieredo, giunse a gran passi trascinandosela dietro sulle praterie dei mulini…L’oscuro fogliame dei pioppi stormeggiava lievemente; e il baccano del villaggio, ammorzato dalla distanza, non interrompeva per nulla i trilli amorosi e sonori degli usignoli. I bruchi lucenti scintillavano fra l’erbe; le stelle tremolavano in cielo, la luna giovinetta strisciava sulle forme incerte e tenebrose con raggio obliquo e velato…Entrarono dunque nel mulino, ma non ci trovarono alcuno benché il fuoco scoppiettasse tuttavia in mezzo alle ceneri. La polenta lasciata sul tagliere dava a divedere che tutti non avevano cenato, e che alcuni degli uomini s’erano forse traccheggiati nel villaggio a guardar la tregenda… La Clara arrossì tutta sotto gli sguardi del giovane. Era la prima volta che, in una stanza e alla piena luce del fuoco, riceveva nel cuore il loro muto linguaggio d’amore”.
Borgo rurale (località Villunghi-Belvedere-Puoi)
Poco discoste dalla trafficata arteria (“la ferrata”), che da Portogruaro si inoltra nel cuore del Friuli, distese di campi e prati, fossi e alberate accolgono il visitatore che entra nella realtà agricola di Villunghi-Belvedere-Puoi. Particolarmente Belvedere, dove il nome stesso è un invito a contemplare l’amenità del luogo. I segni dell’insediamento rurale sono tuttora visibili nel piccolo abitato che attornia Palazzo Soppelsa. In tempi antichissimi il paesaggio agreste era occupato dalla Palude vescovile del Sindacale, già parzialmente prosciugata a partire dal sec. XIV, con cascine (“Cassina dei Poi”, pioppi), peschiere, lunghi viottoli costellati di casoni (“Vigolongo”- Villunghi).